Che significato ha il dolore?
L’esperienza del dolore nella vita quotidiana ed in ambito sportivo
Mal di testa, mal di stomaco, mal di pancia… chi non ne soffre?!
Ci si è abituati al silenzio del corpo e ogni minima sensazione di disagio, ogni piccolo male che avvertiamo, invece di essere visto come una normale vicissitudine della vita, viene trattato alla stregua di un sintomo che diviene presto insopportabile ed oggetto di preoccupazione. Appare sempre più diffuso il ricorso a farmaci e a pratiche mediche anche per dolori che magari ben sopportabili.
Nella cultura occidentale la questione del dolore è generalmente ritenuta di pertinenza quasi esclusivamente medica. Tuttavia, la stessa medicina riconosce che a parità di livello di attivazione dei nocicettori (i recettori responsabili della percezione degli stimoli dolorosi) può corrispondere un differente livello di percezione del dolore. Si possono, infatti, riscontrare condizioni di iperalgesia (aumentata percezione del dolore) o ipoalgesia (ridotta percezione del dolore).
Come è possibile comprendere fenomeni di questo tipo?
La sola scienza medica non sembra fornire delle valide risposte.Quel che differenzia le diverse situazioni è il rapporto che le persone si trovano a vivere con la sofferenza e il dolore. Gli atteggiamenti nei confronti del dolore non sono mai fissi, ma variano di persona in persona, in funzione di variabili personali, contestuali ma più generalmente anche culturali e sociali. La persona sofferente non è passiva dinnanzi al proprio dolore, ma vi reagisce in funzione del significato che gli attribuisce.
Il dolore può assumere un significato diverso in funzione delle altre persone presenti, della situazione, delle reazioni degli altri, del proprio ruolo e del modo in cui si è appreso a relazionarsi alle situazione di dolore in base alla propria storia.
In questo senso è importante acquisire consapevolezza del proprio ruolo attivo nei confronti di ciò che ci fa star male e nella possibilità di sopportarlo ed eventualmente combatterlo.
Facciamo un esempio!
“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia” è una delle frasi più celebri di Marco Pantani. L’“agonia”, il dolore, la sofferenza sono probabilmente parte di qualsiasi attività sportiva ed, in particolar modo, delle discipline di endurance, in cui gli atleti si trovano ad affrontare intensi e prolungati sforzi fisici.
Il ruolo centrale svolto dalla dimensione del significato attribuito ai propri stimoli corporei è testimoniato dalla differenza di significato che assume il dolore in queste situazioni: nonostante la fatica e la sofferenza, spesso gli sportivi non si fermano, procedono con la propria attività e talvolta dichiarano addirittura di non provare alcun tipo di dolore. È come se ogni atleta, a fianco alla competizione manifesta fra sé stesso ed i suoi avversari, si trovasse a portare avanti una competizione nascosta fra sé stesso e la sua soglia del dolore.
Se nella vita quotidiana il dolore è vissuto come qualcosa da evitare, un sintomo che accompagna o annuncia un decorso patologico da curare, nel mondo sportivo l’esperienza del dolore viene a perdere queste caratteristiche poiché acquista un senso. In tale contesto il dolore, lungi dall’essere qualcosa di inafferrabile, rimane sotto il controllo dell’atleta ed è volontario. L’atleta “si crea” il dolore ed è anche la persona che cerca in tutti i modi di evitarlo. Egli è padrone della pena che si infligge, ma anche della sua durata, in quanto sa che può sospendere uno sforzo troppo intenso quando lo desidera. Il dolore è “parte del gioco”: si accetta in cambio della soddisfazione che sopraggiungerà al termine di una gara o di un allenamento ben fatto.
Dott.ssa Sara Lindaver Psicologa Psicoterapeuta Padova
Studio di Psicologia e Psicoterapia a Padova
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